Ah, i clienti. Quelle adorabili creature che, pur non sapendo assolutamente come funzionino Google Ads, Meta Ads e compagnia bella, sono convinte di poter insegnare a un advertiser come si gestisce una campagna pubblicitaria. Sarà forse il fascino dell’improvvisazione? O magari la semplice testardaggine di chi vuole avere l’ultima parola anche se non conosce neppure la prima? Non lo so con certezza, ma so una cosa: se anche tu che leggi fai questo lavoro (o sei coinvolto nel processo), probabilmente avrai combattuto almeno una volta questa battaglia. E se non sei ancora in trincea, abbi fede: la chiamata alle armi arriverà presto.
In questo articolo, voglio condividere alcune situazioni più o meno tragicomiche che capitano a chi, come me, si destreggia con piattaforme come Google Ads, Meta Ads e, più in generale, con la gestione di budget e performance online. L’argomento centrale? Beh, i famosi “clienti-tuttologi”, quelli che per qualche motivo vogliono imporre le loro idee, anche quando di marketing e advertising ne sanno meno di un tordo in letargo. E mi spiace deludere qualcuno, ma succede ben più spesso di quanto si creda.
Quando il colore “giusto” conta più del risultato
Uno dei classici intramontabili: hai impostato una splendida campagna su Facebook (o Instagram), hai selezionato un pubblico ad hoc, un copy persuasivo, un visual accattivante e – soprattutto – hai fatto dei test A/B per capire quale combinazione di colori e immagini funziona meglio. Ed ecco arrivare il cliente che, tutto baldanzoso, dichiara: “No, no, no… a me piace il blu cobalto, non questo blu scuro. Il blu cobalto è più fashion, più mio, più emozionante!”
Ora, c’è un problema di fondo: può darsi che il blu cobalto, in un test preliminare, abbia ottenuto risultati pessimi. Magari l’abbiamo pure provato, e l’algoritmo ci ha brutalmente informati che il pubblico passa avanti senza degnare l’annuncio di uno sguardo. E la differenza, in termini di CTR (Click-Through Rate) e conversioni, è evidente. Ma il cliente no, è convinto che quel blu – “il suo blu” – sia la pietra filosofale dell’advertising, e quindi minaccia di non pagare la fattura se non lo usiamo.
Risultato? Tocca cedere, e sperare che poi, dati alla mano, si ricreda. Perché, fidatevi: nella maggior parte dei casi, quando gli mostri nero su bianco che con il “suo” blu si vende la metà, non può più appellarsi alla fantasia. Se i numeri ti stroncano, devi capitolare. Eppure, spesso, la conversione del cliente avviene solo dopo aver bruciato un po’ di budget in test inutili. Ma pazienza, “il cliente ha sempre ragione”… anche quando ha palesemente torto!
Lo slogan “che piace a me” (ma non piace agli utenti)
Altra situazione paradossale: le campagne Google Ads, in particolare le Search, dove le parole contano più dei colori (in fondo, la Search è tutto un gioco di testo e intenzioni di ricerca). Noi advertiser, si sa, ci sbattiamo per trovare le parole chiave migliori, ottimizzare le corrispondenze, bilanciare CPC (Costo per Click) e budget quotidiano. Ma niente, ecco di nuovo il cliente: “Io voglio che nell’annuncio ci sia scritto ‘Siamo i migliori’, così la gente si convince!”
Il fatto che Google – e, aggiungerei, la logica umana – non ami troppo certe affermazioni palesemente autopromozionali, non sfiora minimamente la mente del nostro cliente. Senza contare che, se ci riflettiamo, la frase “Siamo i migliori” non dà alcuna prova concreta, è generica e non spiega perché scegliere quell’azienda anziché un’altra. E poi ci sono i vincoli sulle parole che si possono (o non si possono) usare negli annunci: “migliore”, “perfetto”, “garantito” sono tutti termini potenzialmente soggetti a policy più restrittive, e a volte le piattaforme preferiscono formulette più diplomatiche.
Ma per il cliente è un dettaglio insignificante. Lui vuole vedere quella parola lì, e guai a contraddirlo. Così, per portare a casa la giornata, a volte dobbiamo fare un po’ di contorsionismo semantico: “Affidati al nostro servizio top di gamma” (che è meno categorico di “i migliori”). Oppure “Ti offriamo qualità e convenienza” (wow, che originalità… ma Google almeno ce lo passa).
Il vero colpo da maestro sarebbe: “Scopri il perché in tanti ci considerano i migliori”, così la colpa del superlativo non ricade su di noi, ma su “tanti”. E Google, si sa, è più clemente se metti le cose in terza persona… Che battaglia quotidiana, però.
L’incubo delle modifiche last minute
Passiamo ora alla fase della campagna in cui sembra che tutto fili liscio: lanci, ottieni i primi dati, ti accorgi che ci sono delle ottimizzazioni da fare. Qualcuna la fai subito, altre le rimandi, perché preferisci accumulare un po’ di statistiche e poi agire con decisione. E poi… arriva il cliente che, a mezz’ora dal lancio (o peggio, dopo un paio d’ore) sbuca con il classico “Ho cambiato idea: mettiamo una foto con le papere al posto di quella coi gattini!”
Ora, qualche volta il cliente propone qualcosa di spiritoso o di creativo, ma il più delle volte si tratta di una modifica figlia dell’incertezza. Un timore improvviso, uno spunto visto su qualche pubblicità in televisione o sul feed di un competitor. E invece di analizzare i dati – che magari non sono ancora nemmeno disponibili in quantità sufficiente per trarre conclusioni – preferisce affidarsi all’intuito. E lo fa sempre all’ultimo secondo, quando la campagna è già partita.
Risultato? Da advertiser, sai benissimo che il cambio continuo di creatività e copy è la ricetta perfetta per non avere risultati. L’algoritmo di Facebook o di Google si innervosisce – sì, gli algoritmi hanno un loro “caratteraccio” – e i costi per conversione iniziano a oscillare come una barca in mezzo alla tempesta. Di solito è un grosso spreco di tempo e di denaro. Eppure, davanti all’ennesima “genialata” del cliente, una parte di te vorrebbe urlare: “Basta, fai fare le campagne a me, ti prego!” Ma la diplomazia incombe, e noi sorridiamo, fingendo una calma zen. Poi, in un secondo momento, con i dati alla mano, cerchiamo di riportare il cliente sulla retta via.
L’analisi dei dati? Ma no, facciamo “a sentimento”!
Un altro aspetto che genera conflitti è l’analisi dei dati. Noi professionisti – e uso il termine con cognizione di causa – sappiamo che una campagna non è un lancio di dadi: ci sono metriche, KPI (Key Performance Indicators), analisi e interpretazioni da fare, test da replicare e confronti da eseguire. Tutto con un unico scopo: far fruttare il budget e ottenere il miglior ROI (Return On Investment) possibile.
Ebbene, ci sono clienti che non amano i numeri. O meglio, amano i propri numeri, quelli che si inventano al volo. Frasi come: “Sento che dobbiamo spendere di più su Instagram, ho questo presentimento!” Oppure: “Secondo me, la gente non legge più di due righe, togliamo tutto il testo e lasciamo solo una foto.” Qualcuno parla ancora di “pancia”, come se stesse comprando frutta al mercato: “Mi dice la pancia che dobbiamo investire di più sul pubblico maschile!”
Ora, io non ho nulla contro le pance, anzi, ci sostentiamo grazie alla loro esigenza di cibo. Ma se la pancia diventa il consulente principale di marketing, ci sono buone probabilità che i risultati siano… indigesti. I dati, invece, sono spietati: ti dicono che se investi X euro in un determinato canale ottieni un CTR alto, se investi la stessa somma in un altro canale ottieni più lead, e così via. L’importante è saperli leggere e interpretare senza farsi influenzare dalle emozioni (e dai pregiudizi del cliente).
L’importanza di fidarsi (davvero) di chi sa fare il proprio lavoro
In questo piccolo viaggio nell’incubo quotidiano di un advertiser, il messaggio di fondo è chiaro: le convinzioni personali dei clienti – spesso – sono il peggior nemico delle performance di una campagna pubblicitaria. Ed è anche normale che chi non è del mestiere non conosca i meccanismi specifici delle varie piattaforme, ma il problema sorge quando si crede di saperne di più di chi, invece, fa questo lavoro quotidianamente.
Provocatoriamente, verrebbe da dire: “Caro cliente, se sapessi davvero come si fa, non avresti bisogno di me!” Ma forse è meglio mantenere un briciolo di diplomazia, e cercare di spiegare, con dati alla mano, le motivazioni dietro certe scelte. Perché la chiave, in fondo, è la trasparenza: se spieghi in modo semplice e concreto perché hai scelto determinati colori, o un determinato copy, o perché stai investendo il budget su un canale piuttosto che un altro, hai buone possibilità che l’ego del cliente venga messo da parte, lasciando spazio alla razionalità (o almeno, ci proviamo).
D’altronde, è come andare da un chirurgo e dirgli: “No, la sutura fammela diagonale, mi piace di più!” Forse non è il caso di giocare con la salute, vero? Ecco, allo stesso modo, non è il caso di giocare con i budget pubblicitari, specialmente quando un’azienda ci si gioca la possibilità di crescere, acquisire clienti, aumentare la brand awareness e così via.
Esempi (auto)ironici: il cliente “tuttologo” e l’advertiser “esorcista”
Facciamo qualche esempio ancora più ironico. Immagina il cliente che dice: “Voglio che tutto sia rosso, rosso dappertutto, anche il testo!” E tu cerchi di spiegargli che un testo rosso su sfondo rosso potrebbe essere illeggibile. Lui replica: “Ma io adoro il rosso, sarà una campagna aggressiva!” Già, aggressiva per la vista degli utenti, che scapperanno a gambe levate.
Oppure, quello che ha sentito parlare di SEO (Search Engine Optimization) una volta a cena, e ora ti suggerisce: “Dobbiamo mettere tante parole chiave, così Google ci trova!” Peccato che l’era del keyword stuffing sia finita da una decina d’anni, e che se esageri rischi di beccarti penalizzazioni. Ma lui nulla, vuole vedere la parola “offerte” ripetuta venticinque volte in una landing page di mezza riga, giusto per sottolineare il concetto.
A volte, mi sento come un esorcista: tento di scacciare gli spiriti maligni dell’improvvisazione, del “fai da te” e dell’ignoranza digital che si impossessano del cliente, ma spesso l’entità resiste. Ci vuole tempo, pazienza, una buona strategia di “persuasione gentile” e, in alcuni casi estremi, la prova inconfutabile dei dati. Ma come dicevo, quando i numeri parlano, il chiacchiericcio si spegne. Non sempre, ma spesso.
Conclusioni (e un consiglio spassionato)
Se c’è un consiglio che voglio dare a tutti i clienti che si apprestano a lavorare con un advertiser o un media buyer, è questo: fidatevi. Non in modo cieco, ma con la dovuta consapevolezza che state affidando il vostro investimento a un professionista. Chiedete, informatevi, fatevi mostrare i report, chiedete chiarimenti. Ma evitate di imporre scelte basate su gusti personali o sensazioni aleatorie: la pubblicità online è sempre più scientifica, basata su dati e analisi approfondite. Certo, l’intuizione è importante, ma deve andare a braccetto con test e validazioni continue.
Dall’altra parte, se sei un advertiser e ti trovi di fronte a un cliente testardo, prova a portarlo sulla via dei numeri: mostra i risultati ottenuti (o mancati) con le sue scelte, e fagli capire quanto potenziale si cela dietro un approccio più flessibile. Usa un linguaggio semplice, non troppo tecnico, e ricordati di non perdere mai la pazienza: a volte il cliente, semplicemente, non è a suo agio con la materia e ha bisogno di sentirsi rassicurato.
E se proprio non c’è verso di convincerlo, allora tieni duro: in questa giungla digitale piena di idee strampalate, alla fine vincono i dati. E davanti a un cost-per-lead alle stelle o a un ROAS (Return on Advertising Spend) che piange lacrime amare, anche il più testardo tra i clienti dovrà arrendersi all’evidenza.
Che poi, se ci pensi, la realtà è questa: noi advertiser non siamo esseri superiori. Semplicemente, studiamo, testiamo, analizziamo, ci aggiorniamo di continuo. È il nostro lavoro. Esattamente come un idraulico non apprezza quando gli diciamo di usare lo scotch al posto della guarnizione o un medico si spazientisce se gli suggeriamo terapie lette su un blog di dubbia credibilità. Insomma, per citare un vecchio detto: “Se paghi un professionista, è perché lui conosce cose che tu non sai.” Lasciateci fare il nostro mestiere, e saremo tutti felici.
In fondo, non è molto diverso dall’andare al ristorante: se chiedo una carbonara allo chef, non pretendo di dirgli io quante uova mettere e come mescolare. Mi siedo, aspetto, mi fido della sua abilità, e poi – se non è buona – glielo faccio notare. Ma almeno assaggio prima di lamentarmi. Ecco, se i clienti facessero così con le campagne pubblicitarie, ci sarebbero meno scontri e più risultati. E magari, qualche ruga in meno sulla fronte di noi advertiser.
E allora, concludendo: caro cliente, la prossima volta che senti il desiderio di sconvolgere una campagna con una tua “genialata” dell’ultimo secondo, fermati un attimo, respira e chiediti: “Sono sicuro che questa mia idea non sia frutto di un capriccio? Ho letto i dati? L’advertiser me l’ha sconsigliata con cognizione di causa?” Se la risposta è che ti fidi del tuo professionista, lascia correre le papere, i gattini e i mille colori improbabili. E concentrati sul risultato.
Ti assicuro, la soddisfazione finale sarà tutta un’altra storia. E potrai dire, con orgoglio, di aver lasciato fare il lavoro a chi – con sana passione e un pizzico di masochismo – ha deciso di addentrarsi in questa fantastica giungla chiamata advertising online. Buon viaggio, e in bocca al lupo a tutti i colleghi advertiser che ogni giorno combattono la stessa battaglia!
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